Api e alchimia
di
Alberto Abruzzese
Tavolette bianche, purissime, come soap per le carni lievi e evanescenti dei corpi e fantasmi della poesia romantica e della letteratura fantastica. Tavolette che si potrebbero incidere come fu un tempo prima della carta e poi raschiare e di nuovo riscrivere una memoria che non deve restare scolpita nelle pietre. Sono invece il materiale di base che grazie a Flaccus si fa qualcosa ai limiti tra pittura e scultura, tra colore e calco, in un lavoro d’artista che recupera una tradizione (l’encausto), antichissima ma ancora sotto il nostro sguardo grazie a opere sopravvissute al tempo, più resistenti dell’affresco e della pittura. Per me che mi occupo di vecchi e nuovi media, magari avendo sempre cercato di non escludere dalla loro storia e del loro ruolo il campo delle arti, la cera evoca subito – da ignorante – alcune immagini inconfondibili: la collezione di cere anatomiche del Museo “La Specola” di Firenze e le cere di Gaetano Giulio Zumbo, le maschere e statue di cera delle tradizioni popolari, e cinematografiche. Il lavoro di Flaccus consiste in un alto grado di manualità: raschiare e incidere per colorare, opacizzare, illuminare le superfici. Gabinetto alchemico, fiamma, pentolino, tempi di cottura, temperature giuste, gesti accorti, misuratissimi, e tuttavia affidati a una parte di caso, felice o infelice, accettato o rifiutato, come attestato (certificazione che ha preso la sua parte sul fare del suo autore) dell’imponderabile, di ciò che non può essere pesato: quel quantum di tempo-spazio in cui l’azione umana resta sempre con-fusa e che, dopo l’evento che lo produce, resta misteriosamente in primo piano senza tuttavia apparire. 
Come il punctum della fotografia di cui parla Roland Barthes ne La camera chiara. Trasparenza invisibile di un destino dei prodotti artistici che altre tecniche della raffigurazione sembrano potere o volere celare o negare. Cera tratta e sublimata dalle api, purissima eppure destinata a essere turbata da colori, a darsi una immagine, ad alludere alla visione e al suo consumo, ancor prima di essere messa in cornice e dentro quella cornice esser fatta disegno. Elemento naturale, intermedio tra cibo e architettura, tolto alla natura e restituito ad altra natura: un trasferimento e una trasformazione che concretizzano un oggetto infra-mondano in cui materiali organici e inorganici concorrono all’ispirazione. I supporti rivestiti di tela – su cui Flaccus spalma la cerca calda e colorata con un polso che si muove alla maniera di larghe pennellate e sta invece progettando un risultato ancora enigmatico – conservano dunque su di sé una più rilevante presenza di natura. Le operazioni sin qui elencate, l’azzardo e precisione da cui dipendono, il fatto soprattutto di affidarsi a una pratica invece che a una teoria, a un laboratorio piuttosto che a uno studio, sono in sintonia con la ripetizione e la variazione. Invogliano a un lavoro seriale e insieme ne sono il prodotto. 
Cosicché le opere di Flaccus procedono in serie, adottando al loro interno il gioco – tipico dell’infanzia e del fare emotivo dei corpi, esperienziale e non sapienziale – dell’imitazione. Cosicché, proprio dall’imitazione-innovazione l’una dell’altra e di una serie rispetto all’altra, producono il loro scatto immaginifico, in tutto simbolico invece che concettuale. Sensazioni – dell’artista e del suo essere consumato – che possono nascere anche da un elemento soltanto della serie, perché le forme in esso manifeste hanno qualcosa di aperto tra le infinite stratificazioni possibili. Ma infine quali forme? Dalle sue cornici emergono ampli spazi vuoti o volute o – in ultimo – riquadri variamente assemblati, ritmi seriali essi stessi alla maniera di un collage. Non so se sia anche in questo caso il frutto della procedura e del processo in cui le opere di Flaccus nascono, tuttavia direi che da lui venga sempre evitato il senso della chiusura e del bell’ordito, ma al tempo stesso questa sospensione di un disegno compiuto sia ottenuta attraverso una precisione persino maniacale. Una sorta di mania del formare negando: sempre in relazione alla natura delle api, ovvero alla cera come natura e insieme all’alchimia di un destino incorporato e raffreddato nella cera, raschiato e trattato in modo da stabilizzarsi nella lunga durata.